Prima di approfondire i vari progetti in cui siete impegnati ogni giorno, vorrei chiederle qualche informazione su Anffas. Quando è nata Anffas? Di cosa si occupa?
G. L.: Attualmente Anffas è un’Associazione di Volontariato che lavora sul territorio da oltre 60 anni, è infatti dal 1958 che opera su scala nazionale. Abbiamo sia una sede nazionale che delle sedi locali e regionali, per cui ci sono associazioni di primo livello, di secondo livello e di terzo livello. Io faccio parte di Anffas Mestre con il ruolo di presidente e sono anche Presidente di Anffas Veneto, nonché Consigliera Nazionale.
Anffas si occupa di persone con disabilità intellettiva e del neuro-sviluppo. Che cosa vuol dire questo? Che ci occupiamo di tutta quella disabilità intellettiva e relazionale che va sotto il nome di Autismo e di Sindromi correlate, di tutte quelle disabilità che riguardano malattie rare, sempre legate al dis-funzionamento del sistema nervoso ed anche dei pluri-handicap. Abbracciamo a 360° la disabilità, e la nostra mission è l'inclusione e la solidarietà, basata sul fatto di considerare la disabilità come un costo sociale legato alla prosecuzione della specie per coloro che nascono con disabilità o legata al progresso dell'umanità (incidenti, inquinamento, ecc....)
Com’è cominciato il suo percorso in Anffas?
G. L.: In genere si arriva ad associazioni come la nostra perché si ha il problema in famiglia (questo è stato il mio caso) e poi si resta come parte attiva all'interno dell'associazione perché ci si accorge che non sei l'unico ad avere questo problematica. Basta pensare che su 4,3 milioni di disabili in Italia, 1,9 milioni circa sono solo persone con disabilità intellettiva e del neuro-sviluppo, quindi si parla quasi di un 50%. Io per esempio mi sono fermata a fare volontariato in Anffas rinunciando a quello che era il mio lavoro, perché credo che sia particolarmente importante essere all'interno per capire come funziona ogni meccanismo per quanto fragile o forte.
Anffas si occupa del sostegno e della tutela dei diritti di persone con disabilità e delle loro famiglie, sia come Enti Gestori, sia come politica sul territorio. Noi siamo così, siamo persone che formano ed informano lavorando con la Pubblica Amministrazione per raggiungere certi obiettivi. Un esempio è la legge 112, quella del “Dopo di noi”. Per tanti anni noi famiglie abbiamo pensato “Che cosa ne sarà del il dopo di noi?”, poi ci siamo accorti che per preparare il dopo di noi dobbiamo lavorare “nel durante noi” e questo è stato un percorso fatto insieme con tutta la classe politica e tecnica della nostra PA.
Se dovessi riassumere il mondo di Anffas in una parola cosa diresti?
G. L.: Io direi solidarietà e ci aggiungerei inclusione. Inclusione della famiglia all’interno di quella che è la società di prossimità, tenendo conto dei vicini, delle opportunità del quartiere e di ogni altro servizio o aiuto che possa rendere più socializzante la vita della persona con disabilità che vive con loro.
Vorrei parlare di un progetto che mi ha colpito molto “Cammino verso l’autonomia possibile”
G. L.: Cammino verso l’autonomia possibile, dove quel possibile parla da solo. Adesso va molto di moda dire che la persona con disabilità va a lavorare o che da adulto vive da solo ma la vera realtà non è questa.
Innanzitutto quando parliamo di persona con disabilità parliamo di diversi gradi di disabilità: per cui uno che ha una disabilità lieve, è una persona che ha mezzi più poveri per esprimere la propria autodeterminazione. Quelli che sono colpiti lievemente possono anche vivere (sempre con una supervisione), in appartamenti da soli, avere anche una vita sociale ed anche lavorativa oltre che familiare. Credo che una persona con disabilità lieve, sebbene sostenuta, abbia un suo percorso nella vita che può essere soddisfacente per lui ma anche per chi ci vive insieme. Una persona con un livello medio di disabilità ha già più problemi per pensare di potersi orientare in una vita autonoma, e quindi già si vede un po’ di più quel “possibile”. La persona grave invece , ad alto sostegno assistenziale, ha quel “possibile” scritto in grassetto.
Perché dico questo? Perché, sostanzialmente dal 2000, il parlamento ha fatto una legge (la n. 328) sull’integrazione socio sanitaria. Questo riguarda l’assistenza alle persone con disabilità non solo dal punto di vista sociale ma anche con l’inclusione di quella parte sanitaria di cui hanno bisogno: ad esempio la somministrazione dei farmaci o la cura della persona dal punto di vista di prevenzione dei decubiti ecc..., soprattutto in quelle che hanno pluri-handicap. Si è infatti pensato che nell’assistenza quotidiana nella persona con disabilità di medio livello assistenziale e quella di alto livello assistenziale, ci fosse bisogno di una quota sanitaria. In questo modo c'è la presa in carico globale della persona, non legandola solo alla patologia, ma considerandola sotto l’aspetto biopsicosociale: la malattia non determina più la definizione della persona. Non sono uno spastico, un epilettico o un autistico, sono solo una persona che con i dovuti sostegni può vivere una qualità di vita sicuramente migliore.
Tornando all’inizio, com’è nato questo progetto?
G. L.: Questo progetto, In cammino verso un’autonomia possibile, è nato perché nel 2016 è stata fatta la legge del “Dopo di noi”. La legge del “Dopo di noi” riprende l'articolo 14 della legge 328/2000. Che cosa serve alla persona con disabilità per orientarla verso l’autonomia possibile?
Serve il sostegno o un pluri-sostegno che dia la possibilità di poter vivere magari con altre persone in modo da tagliare pian piano quel cordone ombelicale con la propria famiglia. Ad esempio, i gruppi appartamento possono essere costituiti fino a 5 persone con un sostegno assistenziale e di supervisione, magari aiutandolo ad andare nei posti di lavoro o nelle occupabilità possibili. Così si vive un percorso anche affrancato dalla famiglia (la famiglia ci sarà sempre, ma in questo modo ha la possibilità di vedere il proprio congiunto orientato verso la sua vita futura). Ecco, questo progetto è stato avviato perché tutti imparassero e fossero formati su come si realizza “il progetto di vita”, secondo l’articolo 14 della legge 328 del 2000. In conclusione si può dire che si è fatto un anno di formazione ed è stata grande, perché l’abbiamo fatta su tutto il Veneto e rivolta a famiglie e lavoratori che non conoscevano o lo conoscevano solo parzialmente, il progetto di vita. In questo modo con il lavoro fatto, oggi se si parla di progetto di vita/qualità della vita/persone con disabilità ecc... ed è difficile trovare persone che non hanno sentito questi termini.
E secondo lei dopo questo progetto ci sono stati risultati?
G. L.: Direi di sì, decisamente. È questo il motivo per cui abbiamo proposto anche alla Regione Veneto, di intraprendere un percorso di formazione per i dipendenti della pubblica amministrazione.
Quindi questo sarebbe il passo successivo?
G. L.: Io credo che sia il passo giusto da fare. Il progetto di vita è fatto dall’UVMDi (acronimo per Unità di Valutazione Multidimensionale Disabili) e se le persone che la costituiscono non sono formate, non possono fare il giusto progetto di vita.
E invece ci sono anche altri progetti che adesso state curando e che pensate per il futuro?
G. L.: Sì. Stiamo curando un percorso di integrazione sociale per giovani con disabilità dopo i 18 anni. È un percorso che si rivolge a tutte le persone con disabilità che hanno finito la scuola dell’obbligo, entrati in quell’età adulta dove non trovano tante risposte e spesso si trovano in un limbo. Ad oggi, nel 2022, non siamo ancora preparati e formati ad accogliere nell’età adulta, allora noi come enti del Terzo Settore, (es. associazioni e cooperative) ci siamo posti l’obiettivo di inserirli o nel mondo del lavoro o nel mondo del tirocinio socializzante, chiamato anche tirocinio sociale. Questi ultimi sono dei percorsi di inserimento di piccoli gruppi nel mondo del lavoro non economicamente redditizio, ma che mantiene una visione normale della vita, non chiusa tra quattro mura (evitare i disabilifici è sempre stato il mio orientamento).
Che cosa vuol dire mondo del lavoro?
Bisogna distinguere il lavoro produttivo da quello sociale. Il lavoro produttivo è quello in cui ognuno produce e ottiene lo stipendio, il lavoro per l’integrazione sociale invece è, ad esempio, mandare i ragazzi in un bar per preparare le tavole. Non è un lavoro che gli farà avere lo stipendio, ma è un lavoro che li fa stare fuori a contatto con la quotidianità. Il nostro obiettivo è quello di abilitare queste persone a stare insieme con gli altri, ad imparare quale deve essere un rapporto di dare e avere, a fare qualcosa e a sentirsi importanti per il contributo dato. Posso assicurarti che anche la persona con la patologia più grave riesce a fare qualcosa e sentirsi utile: basta dare l'occasione e l'opportunità. Io ho visto l'espressione soddisfatta dei ragazzi che si sentono realizzati.
E invece per il futuro? Come vede Anffas tra 5 anni?
G. L.: Io la mia immagine ce l’ho, anche se non ho idea di come la nostra società possa essere tra 5 anni – visti anche gli ultimi avvenimenti di questi mesi. Vedo Anffas ringiovanita, aperta, come un’associazione che diventa un tutt’uno col territorio. Tornando al mondo contemporaneo, è difficile pensare a come le persone con disabilità siano riuscite a scappare da questa guerra. A riguardo abbiamo una testimonianza molto toccante - l’Aktion T4 - una mostra itinerante che esponiamo per ricordare cosa ha fatto la Seconda Guerra Mondiale e il Nazismo ai disabili, oltre che a tutto il resto della popolazione del mondo.
Credo che il futuro debba essere fatto di accorgimenti personalizzati: bisogna vedere la disabilità con un’ottica di recupero, di inserimento, di aiuto, non di compassione ma di con-passione, nel senso di farlo con passione e dedizione. Con quella convinzione che se lo faccio è perché sono in grado di farlo e posso ottenere dei risultati. Noi seminiamo, al fine che ci sia qualcuno che poi possa raccogliere i nostri semi. Ci saranno momenti in cui non raccogli niente perché c’è la bufera, ma altri in cui raccogli tanto, e sono questi a gratificarti per ciò che hai perso durante il brutto tempo.